lunedì 3 ottobre 2011

La crisi del calcio italiano: sintomi di un declino

articolo di Filippo De Grazia


C’erano una volta Platini, Van Basten, Maradona, Weah, Zidane, Ronaldo e Nedved, campioni stranieri che giocavano nel campionato italiano. Erano i tempi in cui i giovani fuoriclasse bramavano di trovar spazio nelle squadre del calcio italiano, quando le nazionali campioni del mondo erano sette o otto undicesimi composte da giocatori impegnati nel nostro campionato. Erano tempi felici per il nostro calcio.
 Nel 2011 promesse come Pastore e Sanchez fuggono alla corte di società estere. Oggi esportiamo i nostri allenatori (vedi Capello, Ancellotti, Spalletti e Mancini) e, caso assai insolito, i nostri giocatori: Rossi, Criscito, Sirigu e Balotelli, solo per citarne alcuni. Abbiamo addirittura perso il quarto posto nel ranking europeo per le competizioni UEFA, surclassati dalla Bundesliga.
Ma qual è il motivo di questa crisi? Per capire perché la Serie A ha perso il fascino e il valore di una volta, occorre riconoscere i sintomi della sua malattia. I segni della sua decadenza.
Come quando nel ‘91 in Italia cadde il PCI e due anni dopo conseguentemente il suo fatale antagonista, la Democrazia Cristiana, così la crisi del calcio italiano è inesorabilmente connessa alla caduta della società che da oltre un secolo contribuiva a dargli identità e valore: la Juventus. Il processo di Calciopoli è stata la prima strutturale picconata al campionato di calcio italiano. Da allora tutto si sgretola. Un campionato senza Juventus è un campionato orfano della sua squadra più rappresentativa E’ un campionato sterile.

E’ vero, dopo il processo del 2006, la Nazionale ha vinto una coppa del Mondo e due Club nostrani la Champions League (Milan nel 2007 e Internazionale nel 2010), ma sono stati casi speciali, gli ultimi segni di vita di un campionato nostalgico della sua storia. E’ vero anche che non tutto è riconducibile al declino deciso a tavolino della squadra bianconera ma è lo stesso importante riflettere sulle conseguenze, giuste o sbagliate, di quella sentenza che uccise il campionato italiano punendo la Juve.

Altro sintomo del male di cui soffre l’Italia è il rinomato regime fiscale che secondo alcuni, penalizza le società e che consiste nella alta tassazione e i bassi introiti derivanti dagli incassi delle società. La questione degli stadi di proprietà dei comuni non va giù alle dirigenze dei team italiani che puntano il dito su una politica che non li agevola. Senza tanti introiti non è possibile  fare acquisti da 40 o 50 milioni come fanno all’estero, motivo per cui tuttavia,  riusciamo a rimanere entro i parametri del Fair Play finanziario indicato dall’ UEFA. A questo si aggiunge il problema dei vivai, sempre meno fonte di produzione di campioni nostrani e, da parte opposta, causa del sempre crescente numero di giocatori stranieri nella rosa dei club professionisti. Basti pensare che nell’ultima Champions conquistata dall’Inter, squadra di Milano, questa vantava quattro italiani in rosa di cui zero titolari (senza contare l’allenatore portoghese).

Poi  c’è da sottolineare la concorrenza dei campionati esteri a cui è connesso un disagio prodotto dalla questione morale. Quale campione vorrebbe mai andare a giocare con una squadra non blasonata, senza prestigio, senza identità come il Manchester City? O come il Paris Saint Germain? Eppure il Kun Aguero, promettente calciatore argentino, ha rifiutato il corteggiamento della Juve, squadra tra le più importanti del mondo, per approdare al Manchester City, club senza storia comprato dallo sceicco Mansour e sul quale sono stati investiti 350 milioni di euro in tre anni e del quale fanno parte tanti altri campioni (Silva, Balotelli, Tevez, Dzeko) inverosimilmente interessati al valore della maglia. Eto’o è andato all’Anzhi, squadra russa di proprietà di un magnate del petrolio, unicamente per un maxi ingaggio da 20 milioni a stagione. E’ cambiato il calcio o sono cambiati i sogni dei calciatori? Come competere con il dio denaro che cancella l’opportunità di indossare una maglia gloriosa per una più “preziosa”?. In Italia nessuna squadra può permettersi di costruire la propria competitività con i soldi.

Quindi il sintomo più evidente: la crisi di risultati. Le squadre italiane, per cui senza distinzione, se giocano in competizioni europee si tifano tutte, non raggiungono grandi risultati. Non conquistano i “tituli” che contano. Più che sintomo, a questo punto, conseguenza evidente di un sistema logorato dai suoi problemi e non più  in grado di rigenerarsi. Ma quale dev’essere la terapia? Si tratta di un malato terminale? No, certo che no. La storia, come il calcio, segue cicli che si ripropongono nel tempo. Di preciso, non possiamo dire quando potremo ritornare ad essere il miglior calcio del mondo, ma senza dubbio se si continua a perseverare nei vizi, il paziente non guarirà mai, non potrà mai tornare a lavorare. Figuriamoci se fanno pure lo sciopero.

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